Un po' di fantapolitica
Si è celebrata oggi, 27 gennaio 2010, la Giornata della Memoria in ricordo dell'Olocausto. Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha ritenuto doveroso ricordare anche i ragazzi delle SS. «A nessun caduto di qualsiasi parte e ai familiari che ne hanno sofferto la perdita si può negare rispetto e pietà. Rispetto e pietà devono accomunare tutti e rappresentano la base per una rinnovata unità nazionale». Il Presidente ha auspicato la ricerca di valori condivisi e la definitiva pacificazione".
Se Napolitano rilasciasse queste dichiarazioni probabilmente non ci sarebbero neanche delle reazioni polemiche, ma verrebbero immediatamente attivate le procedure previste dalla Costituzione in caso di impedimento del Capo dello Stato per problemi di salute.
Ma perché quelle affermazioni ci suonano tanto paradossali, quando in questi giorni ne abbiamo ascoltate molte che ci sono apparse assolutamente normali, ma che dal punto di vista storico-politico sono del tutto equivalenti?
Il virgolettato qui sopra infatti non è inventato: è tratto dall'intervento del Presidente della Repubblica in occasione della recente Festa della Liberazione 2009 e si riferisce ai militi della Repubblica di Salò.
Perché dunque quello che non sarebbe neanche concepibile se riferito alle SS naziste è perfettamente politically correct per i repubblichini loro alleati, che condividevano la stessa visione del mondo delle SS, combattevano insieme a loro e con loro partecipavano ai rastrellamenti e alle deportazioni?
Una mistificazione che viene da lontano
Si è arrivati a questo risultato attraverso un lungo processo di manipolazione della verità storica: in Italia fin dal primo dopoguerra il nazismo veniva rappresentato come il male assoluto, mentre il fascismo sarebbe stata una dittatura "tarallucci e vino", molto provinciale e caricaturale, lontana dalla ferocia e dalla volontà di sterminio del regime hitleriano. Il suo unico errore sarebbe stato quello di seguire i nazisti sulla strada delle leggi razziali e dell'entrata in guerra.
Per questo si è taciuto sui crimini dell'occupazione italiana in Jugoslavia, in Libia o in Africa Orientale e si è accantonata per decenni la ricerca delle responsabilità sulle stragi nazifasciste, in ognuna delle quali emerge immancabilmente la zelante partecipazione dei "ragazzi di Salò".
Erano i fascisti italiani a preparare le liste delle persone da deportare nei lager e ad organizzare i rastrellamenti; ed erano i fascisti italiani a torturare e massacrare i partigiani prigionieri.
Ma per il fascismo italiano non c'è stato alcun processo di Norimberga: la condanna dei crimini di guerra, di cui avrebbe dovuto farsi carico la neonata Repubblica, fu lasciata a gruppi di partigiani che non intendevano rinunciare alla giustizia (e che oggi per questo vengono additati come criminali).
Il fatto è che con la logica di Yalta e l'inizio della guerra fredda i fascisti potevano svolgere un ruolo utilissimo in chiave anticomunista.
Ma non solo i fascisti italiani: ad esempio nessuna delle potenze vincitrici della guerra pensò di mettere in discussione le feroci dittature di Franco in Spagna e Salazar in Portogallo.
E' per questo che da noi l'apparato repressivo e burocratico del regime fascista rimase intatto e si realizzò un'assoluta continuità tra il ventennio fascista e la neonata repubblica.
Il mito dei valori antifascisti condivisi
Formalmente il sistema politico italiano era basato sulla formula del cosiddetto "arco costituzionale", secondo la quale le forze antifasciste si confrontavano democraticamente mentre l'estrema destra restava esclusa con il divieto di ricostituzione del partito fascista.
Ma nella realtà questo confronto democratico era una finzione perché la sinistra non avrebbe mai potuto governare. Se avesse vinto sul terreno elettorale, si sarebbe attivata una rete golpista che avrebbe sovvertito il risultato delle elezioni.
Questa rete, patrocinata dagli USA, comprendeva servizi segreti, cosche mafiose, logge massoniche e gruppi neofascisti, che avevano tranquillamente ricostituito il loro partito ufficiale con il nome di Movimento Sociale Italiano già alla fine del 1945.
E ad appena 15 anni dalla Liberazione la Democrazia Cristiana tentò di rompere anche formalmente la pregiudiziale antifascista dando vita ad un governo con la partecipazione del MSI che fu spazzato via da una violenta rivolta popolare.
Nel frattempo i cosiddetti liberatori statunitensi erano impegnati ad organizzare colpi di Stato fascisti un po' dappertutto, ed erano così sensibili ai diritti civili e democratici da riservare ai neri ancora per molto tempo scuole, chiese, bagni pubblici e posti sull'autobus tutti per loro (non lo si dice mai).
Già dal primo dopoguerra risulta quindi opinabile l'esistenza di valori antifascisti condivisi: nella sinistra vivevano ancora gli ideali della Resistenza, mentre nel sistema di potere democristiano i fascisti avevano trovato una loro collocazione.
In realtà il vero "collante" della Prima Repubblica non è stato l'antifascismo, ma il cosiddetto "compromesso fordista", secondo cui la sinistra, esclusa dal governo, rinunciava a mettere in discussione gli equilibri politici in cambio di benefici in termini di occupazione, salario e stato sociale.
I principi sociali presenti nella Costituzione hanno potuto (parzialmente) concretizzarsi non tanto per la buona volontà delle varie forze politiche ma perché lo permetteva una fase espansiva dell'economia regolata secondo il paradigma fordista-keynesiano.
Il grande movimento di massa degli anni '70 provocò una rottura di questo patto sociale, imponendo cambiamenti radicali che andavano ben oltre le compatibilità del sistema e mettendo in discussione il potere in tutte le sue forme.
Ed è contro questo movimento che forse si realizzò la vera unità di tutte le forze politiche istituzionali.
Dalla Prima alla Seconda Repubblica
Alla fine degli anni '70 comincia l'era del neoliberismo e la fase espansiva di cui sopra si chiude.
Il crollo del blocco sovietico farà parlare di "fine della storia" e permette la realizzazione del mercato globale.
A seguito di questo passaggio in Italia scompaiono persino le forze politiche che facevano parte dell'arco costituzionale.
Il PCI avvia una serie di "mutazioni" che proseguiranno fino all'attuale PD, mentre gli altri partiti tradizionali vengono travolti da Tangentopoli e nascono altre forze politiche più al passo con i tempi come il partito-azienda Forza Italia.
La costituzione formale rimane intatta ma il patto sociale fordista non ha più ragion d'essere e il sistema politico muta profondamente.
Si passa alla cosiddetta Seconda Repubblica, che è la forma politica più rispondente alle esigenze del neoliberismo dominante. Nella sua nascita c è la pesante influenza dei poteri occulti e della strategia della tensione. Si caratterizza fin da subito per l'abbandono di ogni pregiudiziale antifascista e una marcata connotazione autoritaria.
Se nella Prima Repubblica i valori condivisi erano già una mistificazione, nella Seconda è semplicemente assurdo pensare a un qualsiasi patto sociale che si richiami ai valori della Resistenza e della Costituzione.
Sulla natura autoritaria del neoliberismo
Qui è necessaria una digressione sulle caratteristiche culturali del liberismo: i liberisti credono che la società debba essere governata dalla "mano invisibile del mercato". Il mercato costituisce per loro un sistema perfetto, dotato di un naturale equilibrio, purché non intervengano elementi di disturbo. Questi elementi di disturbo sono costituiti in primo luogo dall'intervento statale nell'economia: controlli dei prezzi, protezionismo, politiche redistributive o in difesa dell'occupazione ecc.
L'affermazione del neoliberismo ha quindi come conseguenza la rinuncia dello Stato a qualsiasi politica sociale, che deve limitarsi ad assicurare le condizioni in cui questo sistema perfetto può funzionare. Occupandosi quindi essenzialmente delle funzioni di difesa verso l'esterno e di sicurezza interna.
Viene cancellata la sfera pubblica nel suo insieme: la società dev'essere composta di individui isolati, a cui rimane solo la possibilità di influire sul sistema tramite le leggi della domanda e dell'offerta.
Si afferma il cosiddetto darwinismo sociale, per cui la causa di ogni forma di disagio (povertà, emarginazione ecc.) non risiede in politiche sbagliate o insufficienti, ma perché chi ne soffre non è stato in grado, per incapacità o malvagità, di adattarsi ai meccanismi del sistema. Rispetto a questi soggetti lo Stato non deve più intervenire con politiche sociali o di inclusione, ma solo per neutralizzare una loro possibile pericolosità sociale.
Questa concezione, portata all'estremo, è la stessa che nel passato ha dato l'avvio ai tentativi di "soluzione finale" per alcune categorie di diversi.
Il darwinismo sociale diventa anche il modello delle relazioni internazionali: una politica predatoria sostituisce il dialogo e la diplomazia, si teorizza la "guerra di civiltà" e si mette in discussione l'esistenza stessa degli organismi internazionali.
Ma c'è di più: è la democrazia stessa a rappresentare il fondamentale elemento di disturbo. Milton Friedman, il guru del neoliberismo, era preoccupato del fatto che siccome la maggior parte degli elettori appartiene a classi sociali medio-basse il consenso tende a spostarsi verso quei politici che promuovono politiche redistributive.
Si comprende quindi che questa folle utopia abbia potuto realizzarsi appieno solo in presenza di un forte autoritarismo politico. La prima esperienza storica è quella dell'Indonesia dopo il colpo di Stato di Suharto nel 1965, che provocò un milione di morti e mise immediatamente in pratica le ricette neoliberiste: privatizzazione, deregulation e forti tagli della spesa pubblica. Visto il successo, l'esperienza fu ripetuta negli anni '70 in tutti i Paesi latinoamericani caduti in mano alle dittature militari.
Nel mondo "occidentale", dove non era possibile il ricorso ai carri armati e alle torture di massa, la ristrutturazione liberista non è stata imposta con le giunte militari, ma con una progressiva involuzione autoritaria: le costituzioni formali non vengono abrogate, ma diventano dei gusci vuoti e si procede a sospensioni sempre più prolungate e profonde dei diritti costituzionali a seguito di "emergenze" reali o inventate (guerre, crisi economiche, terrorismo, catastrofi naturali, ecc.).
Le culture fasciste e razziste vengono fortemente rivitalizzate dal clima di insicurezza generalizzata prodotta dalla globalizzazione: in questo contesto è facile indirizzare le paure degli individui atomizzati su capri espiatori come gli immigrati o i devianti in genere
L'individuo normale percepisce il diverso come una minaccia e matura un'avversione per le politiche sociali e di inclusione.
Inoltre si sviluppa il particolarismo e la tendenza a rifugiarsi in comunità e Stati etnici per sfuggire al dominio di soggetti internazionali (corporazioni, istituzioni finanziarie, ecc.).
Nessuno pensa veramente di riproporre in Occidente lo stato totalitario a partito unico e le sfilate obbligatorie in camicia nera, ma le culture fasciste, xenofobe e reazionarie e i gruppi estremisti che ne sono portatori condizionano pesantemente la società.
Anche la presunta conversione alla democrazia di una parte della destra italiana ex-missina è opinabile. Grazie alla mistificazione che dicevamo all'inizio, per gli ex missini è stato sufficiente fare un'autocritica sulle leggi razziali e le vecchie pregiudiziali sono cadute come d'incanto. Ma più postfascisti credo che possano essere definiti i fascisti dell'era postfordista.
L'attuale discussione sul 25 aprile condiviso
Ma per quale motivo allora il PD in questi giorni ha tanto insistito perché Berlusconi partecipasse alla Festa della Liberazione?
In realtà in tutto il dibattito politico di questi giorni la Resistenza c'entra poco: il PD (che a giudicare dai sondaggi sta andando di male in peggio) teme che la maggioranza di destra approvi unilateralmente una modifica della Costituzione che consolidi i poteri della Presidenza del Consiglio e tagli fuori l'opposizione da ogni possibilità di incidere.
In sostanza al PD non interessa più di tanto di ricreare l'arco costituzionale della Prima Repubblica, convertendo Berlusconi all'antifascismo, ma chiede di concordare le modifiche alla Costituzione per continuare a sperare nel gioco dell'alternanza. Condivide liberismo e autoritarismo e si propone di rappresentare al meglio gli interessi del potere economico. Del resto alla base del progetto PD c'è l'idea di poter trasformare il sistema politico italiano in una caricatura di quello statunitense.
Berlusconi non ha avuto problemi a partecipare alle celebrazioni del 25 aprile (l'ideologia non è un concetto postfordista). Ha trovato un'altra occasione per riaffermare il suo dominio mediatico, ha avanzato la proposta di trasformare La Festa della Liberazione in Festa della Libertà (o meglio Festa del Liberismo) e ha fatto capire di non avere interesse alcuno a sbarazzarsi dell'opposizione di sua maestà (dove la trova un'altra così...).
Il PD esulta: per il momento la sua sopravvivenza è garantita. In cambio di che? Si impegnerà a disturbare ancora meno il manovratore, che se fosse per i Veltroni e i Franceschini governerebbe fino al 2050.
L'antifascismo del XXI secolo
Per fortuna con la fine dell'epoca neoliberista anche il "Presidente partigiano" è un cadavere politico ambulante.
Si tratta però di costruire l'alternativa: fare gli archeologi della Resistenza, lontana ormai 64 anni, è fiato sprecato. Va invece raccolta la sua migliore eredità, che è quella di farci capire che il fascismo è un'arma nelle mani del potere economico e assume nelle varie fasi storiche le caratteristiche che meglio lo portano ad assolvere questo ruolo. Negli anni ‘20-‘30 l'obiettivo era quello di impedire il contagio della rivoluzione sovietica, negli anni ‘60-‘70 quello di organizzare colpi di stato e strategie della tensione per fermare i grandi movimenti di massa, oggi lavorano per un sempre maggiore autoritarismo e per dividere i lavoratori immigrati da quelli "indigeni".
Anche oggi quindi per battere il fascismo è necessario eliminare il sistema di potere che lo genera, cioè il liberismo e la globalizzazione capitalista.
La difficoltà della "pacificazione" che le forze politiche istituzionali lamentano non sta nell'incapacità di pochi fanatici nel mettere da parte i rancori del 1945, ma nell'inconciliabilità di sistemi di valori antagonisti come quello della globalizzazione liberista e quello solidaristico (nelle sue varie forme) di cui è portatrice la sinistra (quella vera).
Valori condivisi? Ma neanche per sogno!
Per Senza Soste, Nello Gradirà
28 aprile 2009